giovedì 1 marzo 2012

White head (White End - ep. 2)

Nelle precedenti puntate:
Episodio pilota
Episodio No. 1

[secondo uno studio condotto dal MIT il videoclip "embeddato" qui sotto causava violenti attacchi di diarrea psicosomatica ai lettori, pertanto è stato rimosso e sostituito dal suo url, nemmeno cliccabile per evitare aperture causali della pagina. Pertanto, se volete, potete anche copiaincollare l'url che trovate qui sotto in un'altra scheda, ma a vostro rischio e pericolo]

http://www.youtube.com/embed/Qmmg5RjxJxA

Carlo non era un mio amico.
Era una persona che ammiravo.
L'avevo conosciuto un giorno in cui mi sentivo generoso con il mondo e gli ho allungato cinque euro per una stampa.
"Lo prendi un caffé?"
"Volentieri"
Così mi ha raccontato la storia della sua vita. Di come era finito sulla strada.
Della galleria d'arte e della bellissima moglie, parigina, che aveva incontrato durante una mostra allestita ai suoi tempi d'oro, nella capitale chic-con-la-puzza-sotto-il-naso-e-le-baguette-sotto-le-ascelle (luoghi comuni a cura di Carlo).
Quand'era più giovane aveva anche provato a dipingere, ma non era un granché.
(Era anche riuscito a piazzare una sua tavola per un migliaio di euro, vendendola ad un ex sindacalista che voleva "Qualcosa che sembra un Magritto" per la sua "villetta")
Bravissimo, invece, a riconoscere gli artisti veri.
"Quando si tratta di un buon dipinto, io c'ho naso" mi spiegava quasi sganasciandosi per quel forzato paradosso, quella sinestesia pedestre, ma efficace.
In due anni di attività, aveva messo su un giro di affari di 500 mila euro l'anno. Che significava un centinaio di opere vendute. E per lui un ricavo del 20 percento, che però - mugugnava - "se lo mangiavano quasi tutto le tasse."
"Perché io sono uno che le tasse le ha sempre pagate. Perché pure se ho votato Berlusconi una volta, io ho avuto un'educazione comunista. E le tasse bisogna pagarle per dare i servizi a tutti. Ho votato Berlusconi perché era ora che le cose cambiavano. Io, per esempio, mi sono costruito il mio piccolo regno da solo, partendo da zero."
Non sopportava quelli "che si lagnano perché nessuno fa niente per loro. Se vuoi qualcosa, te la devi guadagnare, te la devi sudare."
Sudando, Carlo era anche riuscito a mettere da parte i soldi sufficienti per comprare una galleria di esposizione fissa. E per allestire delle mostre temporanee a Barcellona, Stoccolma, Parigi...
"Quando ci siamo conosciuti, Clarisse aveva due gambe che sembravano colonne di marmo. Dico in senso buono: levigate, lisce, perfette! Io ero un bel ragazzo anche. Non guardarmi adesso con questa pagliaccia bianca in testa. Ero un bel biondo, allora, con gli occhi verdi."
Si erano sposati prima di subito. Senza troppi invitati. Carlo nemmeno aveva fatto arrivare i genitori dall'Italia.
"Non che c'avessimo un rapporto così male, ma io me n'ero andato di casa a sedici anni. Gli volevo bene, ma loro non mi lasciavano seguire la mia strada..."
Poi era arrivato il piccolo Filippo: "La mia copia sputata. Un bambino bello come il sole, che non puoi nemmeno immaginartelo. E non lo dico perché è figlio mio. Sembrava uno di quei dipinti di puttini rinascimentali."
"Si sa come vanno certe cose, però. All'inizio tutto sembra una favola, ma poi... Clarisse non voleva che mi allontanassi da Parigi. Ma come facevo! Io dovevo cercare nuovi artisti, farli conoscere alla gente che compra. Ogni volta che dovevo partire era la fine del mondo. E quando tornavo non era meglio. Diceva - era sicura! - che l'avevo tradita con qualche sgallettata. Ma posso giurare su dio che non le ho mai messo le corna. Anche se l'occasione l'avrei avuta..."
Al giudice, però, non interessava se davvero fosse stato infedele o meno. Il punto è che Carlo non era mai a casa. Motivo sufficiente per addossargli "la colpa" della separazione.
"Ho sempre pagato gli alimenti e tutto! - protestava, anticipando qualunque possibile critica da parte mia - ma quella storia mi ha demolito dentro. Non ne ho più azzeccata una. I miei pittori si sono cercati altri venditori. Tutto quello che avevo messo su se ne stava cadendo come un castello di carte. Per questo ora mi vedi così..."
"Mi dispiace..." ho provato ad accennare, ma Carlo non aveva finito: "Per coprire i debiti ho venduto la galleria. Mi è avanzato qualcosa che ora tengo da parte. Ho messo in affitto il mio appartamento per essere sicuro di avere sempre i soldi sufficienti da mandare a Clarisse e a Filippo. Loro non sanno come vivo adesso e  non lo dovranno mai sapere."

Non sapevo quanto di quella storia fosse vera. Di certo era un po' troppo romanzata e perfetta.

Dopo i primi giorni di neve, ogni tanto, mi ero chiesto dove fosse finito Carlo, con le sue stampe e il suo letto di cartone.
Quando, dopo quei primi tre giorni, la neve sembrava aver concesso un po' di tregua, come tanti altri avevo deciso di uscire a fare un po' di spesa (perlomeno ci ho provato: nei supermercati non si trovava niente. E per fortuna vivevo in città!).
Carlo non era al solito posto.
Ovviamente ho immaginato che fosse in qualche ricovero e non ci ho più pensato.

Per questo, quando ho colpito con il piede quel mucchietto di neve che si è messo a rotolare, non mi sarei mai aspettato di vedere sbucare fuori gli occhi verdi e la testa di Carlo.

Leggi il terzo episodio

8 commenti:

  1. Il finale è geniale.

    Grazie mille per il commento, CIAO!!!

    RispondiElimina
  2. Cosa ti è passato per la testa per mettere il video de 'sta roba?
    è una metafora fine del mondo/fine della musica?
    Ah, bel post

    RispondiElimina
  3. - Complimenti, davvero.
    Fa partire la canzone
    - Ecco, come non detto...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Benvenuti nel mio mondo: costretto ad ascoltare questa canzone più volte al giorno contro la mia volontà. E uccidere la persona che la faceva partire in continuazione non è servito a niente. Perché quella musica fastidiosa mi è entrata nella testa. Tié, beccatevela pure voi!

      Elimina
  4. Ho una sola fortuna, che da questo pc l'audio va e viene, adesso è andato ;)

    RispondiElimina

Drink!